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Ma, anche, forse soprattutto, perchè la mente è affaticata, ingombra di pensieri, quasi offuscata dalla visione costante di ruderi, macerie, corpi riesumati, montagne di rifiuti, fango, fumo, tendopoli, campi di sfollati. Se a tutto questo, poi, si aggiungono le battaglie quotidiane contro le tante storture della elefantiaca macchina umanitaria, il caldo e l’umidità soffocante, le continue scosse di terremoto… Non è facile scrivere, dicevo. O, almeno, non lo è per me. È come se la mente non riuscisse a trovare spazi e tempi per fermarsi. Per rallentare, per pensare cose altre rispetto al frenetico alternarsi della attività lavorative quotidiane. Proviamo. Banda Aceh, punta estrema dell’isola di Sumatra, una delle più grandi dell’intero arcipelago Indonesiano. Chi è stato qui prima del disastro ricorda spiagge bianche, paradiso dei surfisti più avventurosi, barriere coralline incontaminate, macchie verdissime di palme da cocco, risaie lussureggianti. Ma quello che si vede oggi non ha più nulla a che fare con quei ricordi. In gran parte degli uffici governativi si vedono affisse immagini satellitari del prima e del dopo tsunami: geografie diverse, luoghi irriconoscibili. Il terremoto e la successiva onda anomala hanno letteralmente spazzato via tutto. Lo tsunami, arrivato all’improvviso dall’oceano quella infernale mattina del 26 Dicembre scorso, ha travolto tutto, senza pietà: persone, case, negozi, interi villaggi. Qualche cifra: a Calang, principale centro urbano nel distretto di Aceh Jaya, costa occidentale di Sumatra, su 6, 000 abitanti registrati prima dello tsunami ne sarebbero sopravvissuti solo mille. Nella sola provincia di Aceh si contano ormai più di 200, 000 morti, di cui almeno il 40% bambini. Nel distretto di Aceh Besar, nord Sumatra, ho incontrato un vecchio pescatore, unico sopravvissuto di un intero villaggio. Aveva perso tutto. Inclusa la sua famiglia. Solo a Banda Aceh, capolougo della provincia, gli uffici governativi hanno perso 2, 000 impiegati su un totale di 5, 000. Il 90% degli edifici governativi è stato distrutto o gravemente danneggiato, molti uffici sono innaccessibili. A quasi tre mesi dal disastro, la maggior parte dei servizi pubblici è ancora affidata ad ONG ed agenzie internazionali. Secondo dati delle Nazioni Unite, ci sarebbero circa 400, 000 sfollati interni, di cui almeno due terzi alloggiati in tende, in quelli che qui vengono chiamati spontaneous settlements, cioè campi di fortuna messi su dalla popolazione nei giorni immediatamente successivi al disastro con tende fornite da varie agenzie umanitarie e dal TNI (Tentara Nasional Indonesia), l’esercito indonesiano, fra i primi a fornire assistenza ai sopravvissuti dello tusnami. Prima e dopo lo tsunami Before and after, tutto qui ad Aceh si misura sulla base di questa dicotomia. Per le agenzie umanitarie è il punto di riferimento indispensabile per la programmazione degli interventi di emergenza, cosi come per la ricostruzione. Si compilano liste, si confrontano i dati: quante scuole c’erano prima dello tsunami e dopo, quanti studenti sono sopravvissuti, quanti insegnanti, quanti ospedali, quanti medici, quanti funzionari governativi. Before and after. Fredde statistiche, numeri a confronto. Ma quella stessa dicotomia per gli abitanti di Aceh ha, inevitabilmente, tutt’altro peso: il dopo tsunami significa la perdita di decine di persone care, la scomparsa di una intera famiglia, una casa totalmente distrutta, la perdita del lavoro. Insomma, il ground zero. Nella mia memoria, il dopo-tsunami si è impresso, indelebilmente, attraverso il tragico racconto di una madre che ha perso il proprio bambino, quella mattina del 26 Dicembre, dopo averlo tenuto stretto per i capelli nel tentativo disperato di strapparlo alla furia di quell’onda. E di storie cosi, purtroppo, se ne sentono molte a Banda Aceh. Ed è inevitabile chiedersi come facciano i sopravvissuti ad andare avanti. Dove trovano il coraggio, l’energia, la forza per continuare? Per ricominciare, da zero? Una sera ho chiesto ad una collega locale di accompagnarmi in uno dei tanti campi di sfollati nella periferia di Banda Aceh. Volevamo vedere cosa succede quando i riflettori si spengono, quando gli operatori umanitari si ritirano nelle loro guest houses ed i campi tornano ad essere abitati solo dalla gente di qui, da quelle migliaia di persone che hanno perso tutto, in poche ore. Ed è stata una esperienza durissima. Sotto le tende fa un caldo terribile, anche di sera. Il livello di umidita’ e’ davvero insopportabile. Fai fatica a respirare, a muoverti. Eppure vedi che la gente va avanti lo stesso: le donne lavano i panni, i bambini giocano e gridano, gli uomini discutono in circolo vicino alla moschea. La “normalita’”. Ma cosa si prova a vivere in un campo di sfollati, venti persone per tenda, senza nessuna privacy, senza alcun progetto per il futuro? A cosa pensa questa gente? Cosa sogna? Dal punto di vista umanitario ho visto situazioni più drammatiche: il Rwanda, per esempio, con le sue infernali prigioni, le centinaia di fosse comuni, i campi profughi infestati dal colera. Mi viene da pensare che in tempi di guerra i civili si “abituino” gradatamente agli orrori, alla violenza, alle privazioni, alla perdita di persone care. Il grado di sofferenza è immenso ma più dilazionato nel tempo. Forse. Ma di fronte ad un disastro naturale dell’entità dello tusnami, che stravolge la vita nello spazio di poche ore, come si fa a mantenere un equilibrio, a non scoppiare dal dolore? Quella sera ho parlato con un ragazzino di 12 anni: era solo in quel campo di sfollati, nessun membro della sua famiglia è stato trovato vivo. Per un brutale gioco del destino era lui l’unico sopravvissuto. Quando la terra ha smesso di tremare, lui e’ riuscito a correre piu’ veloce degli altri. Piu’ veloce di quell’onda. Adesso e’ vivo, ma parla a stento e l’unico pensiero che riesce a formulare e’ che vuole tornare a scuola e vuole una famiglia che si occupi di lui. Lo sguardo fisso nel vuoto. Mi dicono che da quel 26 Dicembre non vuole piu’ vedere l’acqua. Devono lavarlo con un panno umido. Anche la doccia gli fa paura. E allora mi torna in mente quel pensiero cupo: come si fa ad andare avanti? Il volere di Allah Qualcuno mi ha spiegato che è la profonda fede a dare forza agli abitanti di Aceh, una provincia in cui l’Islam è da secoli profondamente radicato. Forse. Allah Akbar, Allah è grande, mi ripetono in molti. “È il volere di Allah. Non possiamo farci nulla. Dobbiamo ricominciare, ricostruire le nostre vite. Tutto questo forse ha un senso e ci saranno giorni migliori. Basta mantenere la fede”. Così mi dice Ryan, il mio traduttore. Ryan ha 20 anni, studiava lingue all’Università di Banda Aceh e sognava di fare l’insegnante di inglese. La sua casa e’ stata gravemente danneggiata dal terremoto. Poi sono arrivati anche l’acqua ed il fango ed hanno spazzato via tutto. Eccetto la sua famiglia. Non e’ morto nessuno. In ufficio, il mio tavolo e’ proprio di fronte a quello di Ryan. Ogni volta che alzo lo sguardo dal computer lui sorride. E questo mi fa stare bene. Mi colpisce la sua allegria in un posto in cui di allegro non c’e’ proprio nulla. Io non ho, come Ryan, una fede che mi aiuti a comprendere le tante tragedie del mondo, ad alleviare la dimensione umana del dolore. Però mi piace immaginare che Ryan sia il mio “angelo custode”, qui, a Banda Aceh. Dopo il disastro, il complicatissimo processo di ricostruzione. Ed anche in questo caso si fa una fatica immensa a capire cosa succede, chi fa cosa, dove, con quali risorse, con quali obiettivi. La risposta della comunità internazionale alla tragedia asiatica è stata senza precedenti nella storia delle emergenze umanitarie. E, questo, di certo, è incoraggiante. Fra Gennaio e Marzo si contavano almeno 2, 000 operatori umanitari fra organizzazioni non governative ed agenzie delle Nazioni Unite, la maggior parte dei quali concentrata a Banda Aceh. Sino a metà Marzo le ONG operative ad Aceh erano circa 200. Sono cifre vertiginose se si pensa che prima del Dicembre 2004, quando tutta Aceh era off-limits per giornalisti ed organizzazioni internazionali a causa di un trentennale conflitto interno, c’era al massimo una decina di operatori umanitari nell’intera provincia. Il risultato di questa massiccia presenza internazionale è un labirinto inestricabile di programmi, progetti, banche dati, piani per la ricostruzione Si costituiscono gruppi di lavoro, sotto-gruppi, comitati per il coordinamento. Alla fine ti accorgi, con un certo sgomento, che siamo sempre gli stessi, ci incontriamo ad un meeting la mattina e poi di nuovo il pomeriggio e la sera. Sempre di corsa, sempre affannati. A volte penso che dobbiamo apparire anche un pò goffi alla gente di qui: con le nostre pesanti cartelle pieni di documenti, le nostre agende cariche di impegni, la nostra fretta, le fronti matide di sudore, il fiato corto. Lo sgomento aumenta quando, un giorno, scopri che accanto alle tante organizzazioni serie ed affidabili, da MSF, al Comitato Internazionale della Croce Rossa, Oxfam, UNICEF e via dicendo, siedono anche i rappresentanti della International Scientology Association, l’organizzazione degli “Scientologi”. Proprio accanto a te. E ti chiedi: ma cosa ci fanno ad Aceh, provincia profondamente musulmana, gli scientologi? Chi li ha autorizzati ad entrare in Indonesia? E perchè partecipano ad una riunione di coordinamento sugli interventi di protezione dell’infanzia? Chiedi, fai qualche domanda. E loro, con grande disinvoltura, ti rispondono che sono li per fornire assistenza psico-sociale o, per essere più professionali trauma recovery, ai sopravvissuti traumatizzati dallo tsunami, inclusi i bambini, attraverso tecniche di “ massages dianetique”, me lo dicono proprio così, in francese. Ma che vuol dire? Come se non bastasse, ti capita anche di ascoltare le idiozie di una piccola ONG francese “4×4 Sans frontières” o qualcosa di simile, che ha in progetto di creare un villaggio per il turismo solidale in un distretto di Aceh in cui esercito indonesiano e ribelli si sparano ancora! Gli operatori sono giovani, pieni di entusiasmo e, sicuramente, in buona fede. Ma come si fa a concepire un progetto del genere in una zona di conflitto? è talmente paradossale che viene quasi da ridere. Welcome to the humanitarian circus. Verrebbe da dire, cinicamente. A queste improbabili agenzie internazionali fanno eco certe organizzazioni locali, come il radicale Indonesian Mujahideen Council o l’ancora più estremista Islamic Defenders Front che, oltre a distribuire vestiti e cibo agli sfollati, offrono “guida sprituale” e spediscono ad Aceh volontari per tenere sotto controllo le azioni ed i comportamenti delle migliaia di stranieri. Per evitare, si dice, che corrompano lo spirito e le menti della popolazione locale, devota all’Islam. Deliri paranoici o allarmanti segni di estremismo islamico anti-occidentale? E se, poi, avessero anche ragione a temere il contatto con gli occidentali? Al largo della costa nord ovest di Sumatra è anche approdata la Mercy: una grande nave della marina militare americana che offre soccorso medico ed accesso gratuito ad un sofisticato ospedale di bordo con 20 posti letto (quasi sempre vuoti). Mi chiedo quanto costi agli Stati Uniti tenerla li. Il personale è molto qualificato e con sincere (immagino) motivazioni umanitarie. Ma non puoi fare a meno di chiederti perchè si debba usare una nave da guerra per i soccorsi umanitari. Conquistare i cuori e le menti La commistione fra strutture e personale umanitari, da una parte, e militari, dall’altra, si fa sempre più intensa nelle situazioni di emergenza. E questo non facilita di certo il lavoro delle agenzie umanitarie. I rischi aumentano e l’operatore umanitario diventa un bersaglio, per chiunque si opponga agli interventi esterni in una situazione di crisi, cosi come può esserlo un militare. Ma per i militari è, al contrario, una ottima opportunità: to gain hearts and minds, conquistare il cuore e la mente delle popolazioni locali in situazioni di catastrofe naturale o conflitto armato. è questo il nuovo mantra degli eserciti. Se ne parla in Afghanistan, in Iraq e adesso anche in Indonesia. E di certo non è un caso che, proprio a seguito della massiccia ed efficente mobilitazione “umanitaria” dell’esercito americano ad Aceh dopo lo tsunami, il Ministero della Difesa statunitense abbia riavviato ufficialmente la cooperazione militare con il governo Indonesiano… Mi capita spesso di chiedermi cosa pensino gli abitanti di Aceh di noi. I nostri “beneficiari”. Come ci vedono? Cosa pensano del nostro lavoro, delle nostre burocrazie, del nostro stile di vita? Provo spesso un grande disagio, di più, una grande rabbia, quando metto a confronto la nostra lentezza negli interventi, soprattutto quelli legati alla ricostruzione, a fronte della immensità dei bisogni di questa gente. Sono impaziente, mi sembra che con il livello di risorse finanziarie ed umane disponibili si potrebbe, si dovrebbe, fare di più e più velocemente. Poi mi rendo conto che non è così facile, che la volontà di agire e le risorse esistono, almeno questa volta, ma che gli ostacoli sono sempre tantissimi ed i processi di ricostruzione, inevitabilmente, lenti e complessi. Prendiamo, per esempio, la questione del mercato del lavoro. La prima cosa che viene in mente è perchè non rifornire subito i pescatori di Aceh di barche e reti per rilanciare l’attività, creare reddito e consumi? Un intervento semplice, veloce. In realtà, non è così facile: dove vendere il pesce quando non esistono più mercati, come trasportarlo, dove trasportarlo, come mantenerlo fresco? Interi villaggi di pescatori sono stati distrutti e con loro strade ed infrastrutture. Insomma, le barche e le reti non bastano. Anche per chi viveva di agricoltura bisognerà inventare qualcos’altro: le risaie limitrofe alla costa sono state travolte dall’acqua salmastra e dal fango portati dallo tusnami ed il terreno non è più coltivabile. Non nell’immediato futuro, almeno. E riconvertire pescatori ed agricoltori in altro non è, di certo, impresa facile. Così, per il momento, l’unico modo per acquisire reddito è far parte del programma cash for work dell’UNDP, l’organizzazione delle Nazione Unite per lo sviluppo: 30, 000 Ruphias al giorno, 3 dollari circa, per ripulire la città dalle montagne di detriti causati dal terremoto e dallo tsunami. La ricostruzione, si sa, è poi sempre un grosso business. Alla conferenza dei paesi donatori a Jakarta si è parlato di 4, 5 miliardi di dollari per progetti di ricostruzione da avviare nei prossimi 5 anni. Una sfida immensa. Ed in questo caso non dovrebbero essere solo le idiosincrasie e le competizioni fra le varie agenzie internazionali a preoccupare i donatori. L’Indonesia, sin dai tempi del regime di Suharto, è tristemente nota per l’altissimo livello di corruzione. Dalla fine degli anni ’90, il paese figura fra i 25 stati più corrotti al mondo, secondo le stime della organizzazione Trasparency International. Secondo una inchiesta di Newsweek il governo di Jakarta avrebbe già assegnato, in base a procedure d’emergenza, ossia senza gara d’appalto, dei contratti per la costruzione di baracche per gli sfollati di Aceh a quattro imprese di costruzione statali, notoriamente note per l’assenza di trasperenza ed il livello di corruzione. Così è probabile (ed auspicabile) che la maggior parte dei fondi stanziati per la ricostruzione venga affidata alle agenzie internazionali, sotto il coordinamento delle Nazioni Unite, piuttosto che al governo di Jakarta. Ma anche questo ha un prezzo: gli alti costi operativi delle agenzie internazionali. Intanto, il governo indonesiano si organizza. I meccanismi di coordinamento dell’emergenza e della ricostruzione creati a livello centrale (Jakarta) e regionale (Aceh) non sono di certo meno complessi e caotici di quelli attivati dalla comunità internazionale. Esistono i Bakonas e Bappenas ( disaster unit e planning unit) a livello nazionale; e poi i Satkorlat e Bappedas, equivalenti strutture a livello provinciale. Una babilonia incomprensibile di sigle, dipartimenti, competenze, mandati. Fino a quando ti rendi conto che, in realtà, le decisioni importanti si prendono tutte a Jakarta, a livello centrale. Ad Aceh, invece, chi conta di più è l’esercito. Ancora oggi. Basta visitare il quartier generale del TNI a Banda Aceh per capire quali sono i centri reali del potere politico ed economico in questa regione. è li che si decidono i destini della provincia, cosi come le sorti delle agenzie umanitarie ed il complesso corso della ricostruzione. Una guerra dimenticata Così, a rendere il lavoro particolarmente difficile ad Aceh non sono solo l’entità del disastro e l’immensità dei bisogni umanitari. Va anche considerata la complessa situazione politica e militare. Per circa tre decenni, l’intera provincia di Aceh è stata teatro di scontri violentissimi fra il TNI ed il Free Aceh Movemement (GAM), il gruppo armato che lotta per l’indipendenza di Aceh dal governo centrale e l’instaurazione di una repubblica islamica. Sino al Dicembre 2004 Aceh era sotto uno stato di emergenza civile, con la maggior parte del territorio pesantemente presidiata dall’esercito. Organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International da anni denunciano le sistematiche e gravissime violazioni dei diritti umani perpetrate da entrambe le parti. Ma di questo conflitto si sa poco o nulla. Un’altra delle tante guerre dimenticate. A seguito dello tusnami, il TNI ed il GAM hanno dichiarato un cessate il fuoco per facilitare gli aiuti umanitari e riaperto i negoziati di pace in Finlandia. Raggiungere un accordo non sarà facile: le antiche aspirazioni indipendentiste del GAM si scontrano con la ferrea determinazione di Jakarta a non perdere, dopo East Timor, un altro pezzo del territorio nazionale. Aceh è una provincia ricchissima dal punto di vista delle risorse naturali (principalmente petrolio e gas) e questo spiega in gran parte l’interesse del governo a mantenerne il controllo. Inoltre, la striscia di mare che separa l’isola di Sumatra dalla Malaysia ha una grandissima importanza strategica, dal punto di vista degli scambi commerciali, per il governo Indonesiano. Il che renderebbe ancora più inaccetabile l’idea della costituzione di una repubblica indipendente nella parte nord dell’isola di Sumatra. è in questo contesto che vanno inquadrati il ruolo e l’agenda politica del TNI nella devastata provincia di Aceh: mantenere il controllo del territorio, indebolire e screditare sempre più il GAM, conquistare il consenso della popolazione civile. Mi dicono che il motto nazionale del TNI sia “dal popolo e per il popolo”. Insomma, l’idea di un esercito concepito per l’esclusivo benessere dei civili. No comment. Il problema è che il TNI ha svolto, e continua a svolgere, un ruolo importantissimo nella gestione della risposta umanitaria ad Aceh: sono stati i militari indonesiani i primi ad intervenire quella domenica del 26 Dicembre, a distribuire tende, cibo e medicinali ai sopravvissuti terrorizzati dallo tsunami, a rimuovere velocemente decine di migliaia di cadaveri, evitando così i rischi di epidemie, temute dalle agenzie umanitarie. Tutta la costa occidentale di Aceh è ancora fortemente militarizzata ed i campi di sfollati sono sotto il controllo delle autorità militari. Dunque, negoziati difficili quelli in corso fra il TNI ed il GAM. C’è solo da augurarsi che la tragedia del Dicembre scorso, che ha finalmente aperto la provincia al mondo, possa offrire oltre alla ricostruzione anche una opportunità, reale, di pace. A tre mesi dallo tsunami, la terra continua a tremare a Banda Aceh. Ogni giorno una crepa in piu’ sui muri sporchi dell’ufficio. La cosa piu’ assurda e’ che ci si abitua anche a questo. Guardi le crepe e continui a lavorare, come se nulla fosse. Li chiamano “ after-shocks ”. Ti rassicurano dicendoti che è “normale” che ci siano ancora delle scosse. Ma cosa c’è di “normale” in tutto questo? Allah Akbar recita l’imam. è l’ultimo richiamo della giornata alla preghiera. Ma a me viene in mente solo un pensiero: che la terra, questa notte, non tremi.

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